«Quello che importa alla Chiesa è controllare la gente, portare
avanti una sorta di evangelizzazione che non ha niente a che vedere con Cristo.
Quello che vogliono è portare tutti sotto il grande mantello della Chiesa, in
modo da avere potere e continuare ad averlo. È un potere che dura da duemila
anni. Questo è il senso che danno all’evangelizzazione. E anche il sacerdote
stesso è una vittima di questa mentalità, che gli viene inculcata fin da
bambino, una vittima di plagio. Nessuno crede veramente in questo sistema.
Certo, si può anche incontrare il prete che crede veramente in Dio e ha trovato
il modo, togliendo la Chiesa di mezzo, di vivere il suo sacerdozio con una
carità concreta. Ma quanti sono? La Chiesa che vuole il Vaticano, la Chiesa che
vogliono i vescovi, è la Chiesa delle messe, delle processioni, dei battesimi,
dei matrimoni, delle confessioni, la messa quotidiana, binare…»
«Binare? Che
cosa vuol dire binare?»
«Vuol dire celebrare due messe nello stesso giorno.
La metà delle offerte ricevute la si deve dare al vescovo. C’è una quota minima
ben precisa, quindici euro, che il fedele paga per mandare in paradiso il
proprio caro defunto. Quindi se si celebrano due messe al giorno, al vescovo
vanno almeno quindici euro al giorno. In una diocesi come quella dov’ero io, con
trecento preti, i soldi che arrivavano al vescovo se li immagina? È un sistema
per far soldi. Un vescovo si arricchisce, con queste cose. Tanto chi lo va a
controllare? Il vescovo può fare tutto quello che vuole. C’è l’economo
diocesano, è vero, ma solo per quanto riguarda i beni immobili della diocesi. Il
denaro sfugge. È chiaro che se ci son debiti, il Vaticano deve intervenire per
evitare lo scandalo, ma non è che controlli cosa fa ciascun vescovo. Il vescovo
di suo ha già uno stipendio molto alto, sui tremila euro, a fronte di un prete
che ne guadagna tra i settecento e gli ottocento. Il vescovo va nelle parrocchie
ogni sabato e ogni domenica, celebra a destra e a manca, e ogni volta perché
venga bisogna mettergli in una busta cento, centocinquanta euro.Quindi tra
stipendio, binazioni, offerte che prende in giro, non si ha idea di quel che
guadagna un vescovo: quando un vescovo va in pensione, ha denaro sufficiente per
sé e, se avesse dei figli, per i suoi figli e i suoi nipoti. Sono soldi
personali del vescovo, soldi suoi. Non è obbligato a metterli in diocesi. Può
per esempio comprare un palazzo e regalarlo. O tenerlo anche per sé. Chi lo
controlla? Tant’è che il vescovo può permettersi il personale di servizio, o
cambiar macchina ogni due o tre anni. Il mio ne ha cambiate quattro o cinque in
pochissimo tempo! Senza contare che il personale di servizio del clero, una
cameriera, un autista, un giardiniere, ricevono dal vescovo solo lo stipendio
netto: i contributi glieli paga la Conferenza episcopale italiana, con i fondi
dell’otto per mille.»
«Ma se una diocesi è in difficoltà, il vescovo non ha
il dovere di intervenire?»
«Certo, ma sempre con i fondi dell’otto per mille,
non con i suoi soldi. Il vescovo gestisce un potere economico infinito, perché
gestisce i soldi che vanno a lui, e questi sono tutti suoi. Poi ci sono i soldi
della diocesi, le rendite dei palazzi, degli appartamenti, degli altri immobili,
le libere offerte, l’otto per mille… E sono tutti soldi che il vescovo gestisce
a sua discrezione.»